Il principio costituzionale “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.” (art.1), andrebbe riproposto con la medesima intensità ideale con cui venne promulgato il 27 dicembre 1947, atteso che il dibattito da tempo caratterizzante i nostri territori riguarda il tema delle grandi trasformazioni dei modelli produttivi nel Paese e la demonizzazione tout court dei rispettivi sistemi industriali, benché determinanti per il Pil territoriale e nazionale.
Ciò contribuisce a predeterminare un conflitto ideologico tra produzioni green, nuove tecnologie, investimenti digitali e presenza di realtà industriali di settori strategici, come quelli dell’acciaio e dell’energia, specie quando si afferma da parte di taluni che la presenza delle stesse realtà industriali andrebbe ridimensionata, se non proprio cancellata affinché possa innervarsi lo sviluppo di nuovi modelli produttivi. Ma così si dimostra, seppure in buona fede, di sottovalutare i gravissimi effetti sociali, economici, sanitari, finanziari ed occupazionali di questa eventuale scelta che, oltre a caratterizzarsi come unilaterale per il nostro Paese, si rivelerebbe oltremodo devastante in un contesto di concorrenzialità europea e di mondializzazione dei mercati.
Ora, senza voler invocare presunti diritti di primogenitura, considero opportuno ricordare che come Cisl nel lontano 2003 organizzammo il convegno Taranto Vision 2020 invitando personalità politiche ed universitarie di caratura internazionale, le cui città di origine avevano sofferto pesi ambientali analoghi, se non superiori, a quelli del capoluogo ionico. Essi spiegarono ad Istituzioni, Imprese e Sindacati come fosse stato possibile raggiungere, grazie a finanziamenti mirati, alla partecipazione e al dialogo sociale, la sostenibilità di cicli produttivi anche pesanti e far convivere salubrità ambientale, sviluppo, occupazione e qualità della vita delle loro rispettive comunità.
E’ vero, purtroppo, che anche nel nostro Paese un modello di sviluppo concentrato esclusivamente su profili economici e sulla massimizzazione dei profitti, spesso a danno della sostenibilità ambientale e sociale ha prodotto negli ultimi decenni diffidenza e quasi odio nei confronti di quelle realtà industriali – ma non solo industriali, andrebbe detto! – le cui produzioni, se da una parte hanno garantito reddito a più generazioni di dipendenti diretti e indiretti, dall’altra hanno creato impatti ambientali notevoli e trascurato la sicurezza interna ed esterna ai luoghi di lavoro.
D’altro canto, la profezia contenuta nella Laudato si’ (maggio 2015) di Papa Francesco ha ben rappresentato tutte le criticità ambientali determinate sul pianeta dalla mano dell’uomo ed ha, al contempo, impegnato tutti e ciascuno, in maniera esigente, a fare la propria parte per ricondurre il più possibile il creato alla purezza originale, per consegnarlo disinquinato alle giovani generazioni e a quelle future. A seguire (settembre 2015), 193 Paesi membri dell’ONU tra cui l’Italia hanno sottoscritto l’Agenda 2030 fissando le coordinate del cammino necessario a portare il mondo sulla strada della sostenibilità e, sul versante europeo, con la successiva CoP21 di Parigi (dicembre 2015) è stato aggiornato e rafforzato l’obiettivo di ridurre almeno del 55% le emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Poi, nel 2016 (L. n. 163), in Italia, la riformata Legge di bilancio, per la prima volta introduce il principio del benessere e della sostenibilità (Bes) nel processo di definizione delle politiche economiche, puntando l’attenzione anche su alcune dimensioni fondamentali per la qualità della vita dei cittadini.
Ecco, dunque, come tutta questa recente produzione normativa può effettivamente preludere a nuovi modelli di sviluppo, con percorsi comuni e virtuosi da intraprendere senza pregiudizi né timori dell’ignoto che, viceversa, avrebbero come unico effetto la regressione e stagnazione economica e sociale, oltremodo visibili ad esempio, a Taranto, dove da anni si trascina l’irrisolta questione ex-Ilva. In verità, sono tante le testimonianze diffuse in Italia, in cui tale stagnazione ha prodotto unicamente desertificazione industriale, senza alcun cambiamento che introducesse nuovi e più avanzati processi produttivi sostenibili ma determinando depauperamento economico territoriale e di Pil nazionale.
Si pensi all’ex-Ilva di Bagnoli che tra dipendenti diretti (8mila) e del sistema indotto occupava complessivamente 25mila persone, alla cui dismissione nel 1992 non seguì alcuna reindustrializzazione ma un crack da 24 ML di euro per il fallimento avvenuto nel 2014 di Bagnolifutura S.p.A., a sua volta incaricata nel 2002 di attuare la bonifica e la valorizzazione dei suoli. Quanto a Termini Imerese, dopo la chiusura della Fiat (2011) che occupava 4mila dipendenti diretti ed altrettanti indiretti, oggi si contano 700 ex tute blu in cassa integrazione che non sperano più nel ritorno in fabbrica dopo le decine di flop collezionati da Regione Sicilia, Mise e Invitalia alla disperata ricerca di acquirenti.
Tra questi è da segnalare la Bluetec che dopo aver incassato, attraverso Invitalia nel 2016, un finanziamento pubblico di 21 milioni finalizzati alla produzione, tra l’altro, di motocicli elettrici per Poste italiane ed alla elettrificazione di Doblò per FCA, non ha mai realizzato tali progetti ma ha impiegato 16 dei 21 milioni di fondi statali per la riconversione di altri impianti. Il che, peraltro, ha portato alla condanna dei vertici della stessa Bluetec per malversazione.
Come, poi, dimenticare Gela, dove crisi del petrolio e concorrenza mondiale hanno messo in ginocchio la raffineria dell’Eni, laddove dei 10 mila dipendenti degli anni ’90 oggi ne restano 2 mila tra diretti e del sistema indotto, molti dei quali in cassa integrazione; ed il fallimento della Belleli a Taranto il cui unico risultato è stato la cassa integrazione e l’accompagnamento alla quiescenza degli oltre 2mila dipendenti, tra diretti e indiretti, e solo per una piccola parte di questi la ricollocazione nello stabilimento ex-Ilva.
Ebbene, produzione green, digitalizzazione, tecnologie innovative, ricerca, telemedicina, sistema socio-sanitario: occorrerà riempire di nuovi contenuti questi processi ed iniziare con lo stabilire in concreto chi possa essere il soggetto investitore, quali aziende siano interessate, quanta mano d’opera possa essere impiegata e/o ricollocata, quali e quanti i soggetti nei nostri territori siano pronti a misurarsi con queste nuove progettualità. Va, oltretutto, annotato che i suddetti driver di sviluppo, se da una parte tendono ad assicurare efficienza ambientale e tecnologica ai processi produttivi, dall’altra richiedono un’alta specializzazione professionale degli addetti.
Al momento i maggiori investimenti, in transizione energetica, sono previsti esclusivamente nei piani industriali di quelle grandi Aziende di settore nei confronti delle quali, paradossalmente, spesso le comunità locali manifestano dissenso per l’impatto delle rispettive produzioni. Eppure il settore dell’energia negli ultimi anni ha prodotto più lavoratori esodati e in quiescenza che nuovi posti di lavoro; si pensi che il solo il settore elettrico è passato da un organico di circa 130mila dipendenti negli anni ’90 ad uno attuale di circa 50mila addetti.
Da parte delle Amministrazioni pubbliche, insomma, non si è sempre collaborato per facilitare i processi di transizione che agevolassero investimenti anziché ostacolarli con una burocrazia amministrativa talvolta pari a quella di Paesi con scarso livello di democrazia.
E dunque, quando nella nostra area ionica e adriatica si auspica lo smantellamento del vecchio sistema produttivo non va trascurato che ipotetici nuovi vettori di sviluppo debbono considerare variabile non indipendente gli elevati numeri di lavoratori e lavoratrici oggi occupati presso la grande industria qui presente. In primo luogo bisogna creare nuove condizioni professionalizzanti non solo per l’attuale mano d’opera che potrebbe essere interessata dalle trasformazioni delle rispettive realtà produttive ma, soprattutto, nuove opportunità per i giovani cui assicurare il diritto di restarvi, non disinvestendo sul loro patrimonio umano ed affettivo.
Ciò comporterà anche l’attivazione di collegamenti tra Scuola, Università, Impresa, Istituzioni, agevolando l’alternanza scuola-lavoro, realizzando l’incontro tra fabbisogno aziendale e competenze degli studenti cui assicurare continuità di percorsi scolastici promuovendo sinergie tra gli istituti superiori presenti a Taranto e a Brindisi e le università che costituiscono valore aggiunto. Inoltre, si dovrà incentivare la Ricerca grazie alle diffuse professionalità del mondo scientifico universitario ed alle potenzialità correlate alla realizzazione del Tecnopolo del Mediterraneo, oppure al Cetma e/o l’Enea a Brindisi.
Rendere appetibile un territorio per le Imprese e per i nostri giovani, significa altresì fornire loro servizi efficienti della Pubblica amministrazione, un servizio di trasporto efficace, servizi digitali, ambienti attrezzati per il co-working, banda larga e ultra larga, un welfare territoriale/aziendale che agevoli l’occupazione femminile, cioè asili nido, scuole per l’infanzia, tempo pieno.
Siamo attrezzati per tutto questo affinché si possa realizzare il sogno di civiltà e di progresso che tutti vorremmo e al netto della presenza di siti industriali che, sia ben chiaro, devono perentoriamente essere ricondotti nell’alveo della sostenibilità ambientale? E siamo tutti convinti – Politica, Istituzioni periferiche, Agenzie educative, sistema delle Imprese, ecc. – della necessità di offrire ai nostri giovani la possibilità di programmare il loro futuro nelle proprie città e non assistere ad una emigrazione di massa per studio e lavoro che vede la Puglia con il tasso più alto di giovani che vanno a studiare e lavorare fuori sede e, magari, spendere altrove le proprie competenze umane e professionali?
E allora, prima di rottamare qualcosa sarà necessario attrezzarsi innanzitutto con una visione condivisa di modello sociale, economico e produttivo per non privarci di ulteriori settori produttivi ed ulteriore occupazione.
Ne consegue che diventa paradossale la perdita di tempo in ordine alla gestione del Recovery Plan da parte del Governo nazionale, che ancora non fa chiarezza su progetti e risorse spettanti al Mezzogiorno e al nostro territorio per quanto ci riguarda. Abbiamo coscienza, però, delle nostre importanti opportunità sulle quali investire, come le realtà portuali di Taranto e di Brindisi, la cui posizione geografica è strategica per i nuovi equilibri geografici all’interno dei quali il Mediterraneo è diventato un Hub oltremodo appetibile per qualsiasi tipologia di traffico commerciale dal Sud al Nord del mondo. Ma sappiamo anche che di fronte ad un calo produttivo verticale della grande industria vi è stato di conseguenza un calo dei traffici nei due porti.
Anche per questo le alternative produttive su cui assumere iniziative istituzionali e sociali risultano essere quelle che il territorio può esprimere, dalla logistica e la retro portualità, all’agroalimentare e all’agroindustria, dai servizi alle imprese e alla persona al turismo, senza dimenticare il settore della moda e del tessile. Quest’ultimo è stato sempre una eccellenza presente nel distretto di Martina Franca ed a tal proposito il protocollo sottoscritto nell’anno appena trascorso tra Parti sociali, Università ed Amministrazione comunale costituisce esempio e riferimento per altri settori produttivi del nostro territorio.
E’ vero che l’attuale periodo di pandemia, caratterizzato dall’emergenza socio-sanitaria ed economica continua a perdurare da circa un anno ma è proprio per questo che risulta necessario un Patto sociale, sia a livello nazionale che periferico, per stabilire priorità e condividere percorsi orientati al bene comune. Sentimento questo che deve influenzare maggiormente le nostre realtà meridionali per venir fuori da schemi vecchi e sconfitti dalla storia, quando cioè i rapporti istituzionali e politici hanno prodotto più competizione tra deboli che solidarietà.
E’ stato questo un modello di Mezzogiorno debole e diviso, restio a fare squadra e perciò da sempre debole nella contrattazione istituzionale. Questo, dunque, è il tempo di rimettersi tutti in gioco, per una nuova visione condivisa di presente e di futuro che dia coerenza all’assunto per il quale il Paese tornerà ad essere competitivo, in Europa e nel mondo, se sarà effettivamente recuperato il divario Nord-Sud.
Francesco Solazzo – Segretario Generale
08 gennaio 2021